martedì 8 ottobre 2013

Parlare di Dio, con quale linguaggio?


        L’ Associazione europea per la teologia cattolica, a Bressanone ha svolto una riflessione su come la Chiesa parla di Dio e dialoga con il mondo. 
        E’ risultato che la difficoltà del dialogo tra la teologia e i linguaggi del mondo è causata dall’aver sostituito il linguaggio evangelico, centrato sul bene dell’uomo, con quello religioso che punta alla difesa della dottrina.                 
      Quando la teologia, con il suo linguaggio, reprime tutto ciò che non corrisponde al proprio campo, crea scontri e divisioni, non comunica i valori umani, né apre vie di dialogo. Andrebbero tralasciate le forme linguistiche ereditate dal cristianesimo, ma inadatte per parlare di Dio agli uomini di oggi. Un linguaggio teologico “tecnico” non è idoneo per una comunicazione, nè per un discorso su Dio a tutti. Già è difficile parlare di cose visibili, come allora parlare di Dio che «nessuno mai l’ha visto» (Gv 1,18)? La soluzione è data sempre dal Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv, 1,14), «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (1,18). Solo attraverso Gesù che si fa carne, possiamo comprendere la realtà di Dio che si comunica nella storia dell’uomo con il linguaggio proprio di ciascun tempo. Se il Verbo (la Parola) si è manifestato nella carne, nella concreta realtà dell’umano, solo attraverso un linguaggio quasi pelle ed ossa, sanguineo, diretto, si può portare l’uomo a cercare di capire  il bene quale valore assoluto e la fonte stessa di questo bene. E’ proprio il Dio che si fa bambino, la buona notizia, il modello della comunicazione anche teologica. Un linguaggio che si fa umano, che rivela la sapienza ai piccoli

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