venerdì 23 gennaio 2015

famiglia luogo di comunicazione


Comunicare la famiglia: 
ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore

 La famiglia è il primo luogo dove impariamo a comunicare.
 la comunicazione come un dialogo che si intreccia con il linguaggio del corpo
Esultare per la gioia dell’incontro è in un certo senso l’archetipo e il simbolo di ogni altra comunicazione, che impariamo ancora prima di venire al mondo
Il grembo che ci ospita è la prima "scuola" di comunicazione, fatta di ascolto e di contatto corporeo, dove cominciamo a familiarizzare col mondo esterno in un ambiente protetto e al suono rassicurante del battito del cuore della mamma. 
Questo incontro tra due esseri insieme così intimi e ancora così estranei l’uno all’altra, un incontro pieno di promesse, è la nostra prima esperienza di comunicazione.
 la famiglia, Un grembo fatto di persone diverse, in relazione: la famiglia è il «luogo dove si impara a convivere nella differenza» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 66). 
 Le parole non le inventiamo: le possiamo usare perché le abbiamo ricevute. E’ in famiglia che si impara a parlare nella "lingua materna", cioè la lingua dei nostri antenati (cfr 2 Mac 7,25.27). 
 capacità della famiglia di comunicarsi e di comunicare
la famiglia il contesto in cui si trasmette quella forma fondamentale di comunicazione che è la preghiera. Così, in famiglia, la maggior parte di noi ha imparato la dimensione religiosa della comunicazione, che nel cristianesimo è tutta impregnata di amore, l’amore di Dio che si dona a noi e che noi offriamo agli altri.
Nella famiglia è soprattutto la capacità di abbracciarsi, sostenersi, accompagnarsi, decifrare gli sguardi e i silenzi, ridere e piangere insieme, tra persone che non si sono scelte e tuttavia sono così importanti l’una per l’altra, a farci capire che cosa è veramente la comunicazione come scoperta e costruzione di prossimità. La famiglia è più di ogni altro il luogo in cui, vivendo insieme nella quotidianità, si sperimentano i limiti propri e altrui, i piccoli e grandi problemi della coesistenza, dell’andare d’accordo. Non esiste la famiglia perfetta, ma non bisogna avere paura dell’imperfezione, della fragilità, nemmeno dei conflitti; bisogna imparare ad affrontarli in maniera costruttiva. Per questo la famiglia in cui, con i propri limiti e peccati, ci si vuole bene, diventa una scuola di perdono. Il perdono è una dinamica di comunicazione, una comunicazione che si logora, che si spezza e che, attraverso il pentimento espresso e accolto, si può riannodare e far crescere. Un bambino che in famiglia impara ad ascoltare gli altri, a parlare in modo rispettoso, esprimendo il proprio punto di vista senza negare quello altrui, sarà nella società un costruttore di dialogo e di riconciliazione.
 Il deficit motorio, sensoriale o intellettivo è sempre una tentazione a chiudersi; ma può diventare, grazie all’amore dei genitori, dei fratelli e di altre persone amiche, uno stimolo ad aprirsi, a condividere, a comunicare in modo inclusivo; e può aiutare la scuola, la parrocchia, le associazioni a diventare più accoglienti verso tutti, a non escludere nessuno.
la famiglia può essere una scuola di comunicazione come benedizione 
 reimparare a raccontare, non semplicemente a produrre e consumare informazione. 
L’informazione è importante ma non basta, perché troppo spesso semplifica, contrappone le differenze e le visioni diverse sollecitando a schierarsi per l’una o l’altra, anziché favorire uno sguardo d’insieme.
Anche la famiglia,  ambiente in cui si impara a comunicare nella prossimità e un soggetto che comunica, una "comunità comunicante". Una comunità che sa accompagnare, festeggiare e fruttificare. 
Raccontare significa invece comprendere che le nostre vite sono intrecciate in una trama unitaria, che le voci sono molteplici e ciascuna è insostituibile.
La famiglia più bella, protagonista e non problema, è quella che sa comunicare, partendo dalla testimonianza, la bellezza e la ricchezza del rapporto tra uomo e donna, e di quello tra genitori e figli. Non lottiamo per difendere il passato, ma lavoriamo con pazienza e fiducia, in tutti gli ambienti che quotidianamente abitiamo, per costruire il futuro.

Dal Vaticano, 23 gennaio 2015
Vigilia della festa di san Francesco di Sales
FRANCISCUS PP.

domenica 11 gennaio 2015

“Solidali per la vita”

Messaggio del Consiglio Episcopale Permanente per la 
37a Giornata Nazionale per la vita 
                                          (1° febbraio 2015)


  “I bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli; i bambini perché porteranno avanti la storia, gli anziani perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita”. 
Papa Francesco sollecita un rinnovato riconoscimento della persona umana e una cura più adeguata della vita, dal concepimento al suo naturale termine. 

Quando una famiglia si apre ad accogliere una nuova creatura, sperimenta nella carne del proprio figlio “la forza rivoluzionaria della tenerezza e in quella casa risplende un bagliore nuovo non solo per la famiglia, ma per l’intera società.
Il preoccupante declino demografico che stiamo vivendo è segno che soffriamo l’eclissi di questa luce. Infatti, la denatalità avrà effetti devastanti sul futuro: i bambini che nascono oggi, sempre meno, si ritroveranno ad essere come la punta di una piramide sociale rovesciata, portando su di loro il peso schiacciante delle generazioni precedenti.
 che mondo lasceremo ai figli, a quali figli lasceremo il mondo?
Il triste fenomeno dell’aborto è una delle cause di questa situazione, impedendo ogni anno a oltre centomila esseri umani di vedere la luce e di portare un prezioso contributo all’Italia. 
 fecondazione artificiale, mentre persegue il diritto del figlio ad ogni costo, comporta nella sua metodica una notevole dispersione di ovuli fecondati, cioè di esseri umani, che non nasceranno mai.
Il desiderio di avere un figlio è nobile e grande; è come un lievito che fa fermentare la nostra società, segnata dalla “cultura del benessere che ci anestetizza” e dalla  crisi economica che pare non finire. Il nostro Paese non può lasciarsi rubare la fecondità.
  questo desiderio non si trasformi in pretesa occorre aprire il cuore anche ai bambini già nati e in stato di abbandono. Si tratta di facilitare i percorsi di adozione e di affido che sono ancora oggi eccessivamente carichi di difficoltà per i costi, la burocrazia  e, talvolta, non privi di amara solitudine. Spesso sono coniugi che soffrono la sterilità biologica e che si preparano a divenire la famiglia di chi non ha famiglia, sperimentando “quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita” (Mt 7,14).
La solidarietà verso la vita -una famiglia che adotta una famiglia. Possono nascere percorsi di prossimità nei quali una mamma che aspetta un bambino può trovare una famiglia, o un gruppo di famiglie, che si fanno carico di lei e del nascituro, evitando così il rischio dell’aborto al quale, anche suo malgrado, è orientata.
Una scelta di solidarietà per la vita che, anche dinanzi ai nuovi flussi migratori, costituisce una risposta efficace al grido che risuona sin dalla genesi dell’umanità: “dov’è tuo fratello?”(cfr. Gen 4,9). Grido troppo spesso soffocato, Papa Francesco, “in questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”.
La fantasia dell’amore può farci uscire da questo vicolo cieco inaugurando un nuovo umanesimo: “vivere fino in fondo ciò che è umano (…) migliora il cristiano e feconda la città”. 
La costruzione di questo nuovo umanesimo è la vera sfida che ci attende e parte dal sì alla vita.

venerdì 9 gennaio 2015

CUORE DOCILE


Una seduta di yoga non potrà insegnare a un cuore a “sentire” la paternità di Dio, né un corso di spiritualità zen lo renderà più libero di amare. Questo potere ce l’ha solo lo Spirito Santo. 
 
Un cuore può essere di pietra per tanti motivi, 
un altro motivo che indurisce  il cuore è la chiusura in se stesso
“Fare un mondo in se stesso, chiuso. In se stesso, nella sua comunità o nella sua parrocchia, ma sempre chiusura. E la chiusura può girare intorno a tante cose: pensiamo all’orgoglio, alla sufficienza,  alla vanità,

C’è pure chi si barrica dietro la legge, aggrappandosi alla “lettera” di ciò che i comandamenti stabiliscono. 
 a indurire il cuore è un problema di “insicurezza”.
“Il cuore, quando si indurisce, non è libero e se non è libero è perché non ama:
L’amore perfetto scaccia il timore: nell’amore non c’è timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. Non è libero. Sempre ha il timore che succeda qualcosa di doloroso, di triste,
Chi non ama non è libero. E il loro cuore era indurito, perché ancora non avevano imparato ad amare”.
Lo Spirito rende liberi e docili
“chi ci insegna ad amare? Chi ci libera da questa durezza?”,  “Soltanto lo Spirito Santo”, 
 Soltanto è lo Spirito Santo che muove il tuo cuore per dire ‘Padre’. Soltanto lo Spirito Santo è capace di scacciare, di rompere questa durezza del cuore e fare un cuore… “Docile”. Docile al Signore. Docile alla libertà dell’amore”.

mercoledì 7 gennaio 2015

Sapientia cordis. «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo»

  XXIII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO 2015

Sapientia cordis. «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (Gb 29,15)

voi che portate il peso della malattia e siete in diversi modi uniti alla carne di Cristo sofferente;
la “sapientia cordis”, la sapienza del cuore non è una conoscenza teorica, astratta, frutto di ragionamenti. Essa piuttosto, come la descrive san Giacomo nella sua Lettera, è «pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera» (3,17). È dunque un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio.
«Insegnaci a contare i nostri giorni / e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12).

2. Sapienza del cuore è servire il fratello. nelle  parole di Giobbe  «io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo», si evidenzia la dimensione di servizio ai bisognosi da parte di quest’uomo giusto, che gode di una certa autorità e ha un posto di riguardo tra gli anziani della città.
La sua statura morale si manifesta nel servizio al povero che chiede aiuto, come pure nel prendersi cura dell’orfano e della vedova (vv.12-13).
Quanti cristiani anche oggi testimoniano, non con le parole, ma con la loro vita radicata in una fede genuina, di essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo”! Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi. Questo servizio, specialmente quando si prolunga nel tempo, può diventare faticoso e pesante.
È relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare. E tuttavia, che grande cammino di santificazione è questo! In quei momenti si può contare in modo particolare sulla vicinanza del Signore, e si è anche di speciale sostegno alla missione della Chiesa.
3. Sapienza del cuore è stare con il fratello. Il tempo passato accanto al malato è un tempo santo. È lode a Dio, che ci conforma all’immagine di suo Figlio, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Gesù stesso ha detto: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27).
Chiediamo con viva fede allo Spirito Santo che ci doni la grazia di comprendere il valore dell’accompagnamento, tante volte silenzioso, che ci porta a dedicare tempo a queste sorelle e a questi fratelli, i quali, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amati e confortati. Quale grande menzogna invece si nasconde dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere vissute!
4. Sapienza del cuore è uscire da sé verso il fratello. Il nostro mondo dimentica a volte il valore speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro. In fondo, dietro questo atteggiamento c’è spesso una fede tiepida, che ha dimenticato quella parola del Signore che dice: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Per questo, vorrei ricordare ancora una volta «l’assoluta priorità dell’“uscita da sé verso il fratello” come uno dei due comandamenti principali che fondano ogni norma morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 179). Dalla stessa natura missionaria della Chiesa sgorgano «la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (ibid.).
5. Sapienza del cuore è essere solidali col fratello senza giudicarlo. La carità ha bisogno di tempo. Tempo per curare i malati e tempo per visitarli. Tempo per stare accanto a loro come fecero gli amici di Giobbe: «Poi sedettero accanto a lui in  terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore» (Gb 2,13). Ma gli amici di Giobbe nascondevano dentro di sé un giudizio negativo su di lui: pensavano che la sua sventura fosse la punizione di Dio per una sua colpa. Invece la vera carità è condivisione che non giudica, che non pretende di convertire l’altro; è libera da quella falsa umiltà che sotto sotto cerca approvazione e si compiace del bene fatto.
L’esperienza di Giobbe trova la sua autentica risposta solo nella Croce di Gesù, atto supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso. E questa risposta d’amore al dramma del dolore umano, specialmente del dolore innocente, rimane per sempre impressa nel corpo di Cristo risorto, in quelle sue piaghe gloriose, che sono scandalo per la fede ma sono anche verifica della fede .
Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per acquisire e rafforzare la sapientia cordis. Si comprende perciò come Giobbe, alla fine della sua esperienza, rivolgendosi a Dio possa affermare: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo.

O Maria, Sede della Sapienza, intercedi quale nostra Madre per tutti i malati e per coloro che se ne prendono cura. Fa’ che, nel servizio al prossimo sofferente e attraverso la stessa esperienza del dolore, possiamo accogliere e far crescere in noi la vera sapienza del cuore.

Francesco